
Kokouvi Paul Zikpi
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Descriptif auteur
Religieux franciscain de l'Ordre des Frères Mineurs et togolais de nationalité, l'auteur initie sa carière de recherche scientifique avec une pensée prioritairement tournée vers l'Afrique et ses multiples problèmes. Entre les lignes de ses deux premiers ouvrages se dessine en filigrane la recherche de voies et moyens pour relever les classes déchues de la société, en particulier celles de l'Afrique noire.
Le frère ZIKPI Kokouvi Paul, de nationalité togolaise, né le 31 décembre 1974, est franciscain de l’Ordre des Frères Mineurs (OFM). Titulaire d’un Baccalauréat d’Etat Série D en 1995, il entre chez les Franciscains en 1996 où il fit ses premiers vœux en 1998 et ses vœux perpétuels en 2003. Doté d’une Licence en Philosophie et d’un Baccalauréat en Théologie, il fut ordonné diacre en juin 2006 et prêtre en décembre de la même année. Vicaire paroissial pendant un an, puis Formateur au scolasticat de philosophie pendant deux ans, il poursuivit ses études en Théologie Morale à Rome à partir de 2009 où il obtint la Licence en 2011 et le Doctorat en 2013. Il est ensuite nommé professeur de Théologie morale au Centre de Formation Missionnaire d'Abidjan (CFMA), un institut de formation missionnaire.
Structure professionnelle : Centre de Formation Missionnaire d'Abidjan (CFMA) - 13 BP 2727 Abidjan 13 - Tel (00225)40082461 / 46100846 - Email: paulzkp@yahoo.fr ou cfma@aviso.ci
Titre(s), Diplôme(s) : Licence en Philosophie et Sciences Humaines, Doctorat en Théologie morale
Fonction(s) actuelle(s) : Religieux
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LES ARTICLES DE L'AUTEUR
Il contributo della Chiesa alla giustizia sociale nella prospettiva africana: una risposta al male e alla sofferenza di un continente
Non basta ricordare i principi, affermare le intenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denunce profetiche: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da un'azione effettiva.
Parlare di giustizia sociale risulta molto complicato, soprattutto nel mondo di oggi, a causa delle molteplici problematiche che caratterizzano la vita della società odierna. Il problema è così complesso che perfino gli autori di riferimento in questo ambito si contraddicono nella maggior parte dei casi. E quando uno pensa di raggiungere la conclusione su questo, la questione ritorna con più vigore. Se aggiungiamo a questa prima difficoltà una seconda che riguarda il tipo d'intervento della Chiesa per promuovere questa virtù fondamentale della comunità umana, allora l'impresa diventa sempre più difficile.
Però, per quanto riguarda la teologia, non si può eludere la domanda sul contributo della Chiesa per promuovere un valore così importante, non solo per il benessere della società, ma soprattutto perché venga il regno di Dio, un regno di giustizia e di pace.
Per quanto riguarda l'Africa, numerosi sono i casi da prendere in considerazione. In questo intervento, vogliamo indicare alcuni ambiti di rilievo e proporre qualche tipo di contributo che, secondo noi, fa parte della missione della Chiesa come popolo di Dio in mezzo al mondo, in particolare, la sua autorità che deve fare opera d'avanguardia.
1. Cosa si intende per "giustizia sociale"?
Il magistero della Chiesa definisce la giustizia sociale in rapporto con il contesto sociale in cui si vive, invitando ad un cambiamento permanente delle strutture in vista di una società più equa. Tutto sommato, si può definire la giustizia sociale come una virtù che ispira ai membri della società di intraprendere, per l'interesse pubblico, ogni atto di virtù a cui non possono sottrarsi senza violare la legge sulla cooperazione dei suoi membri.
Tuttavia, per capire meglio il contenuto di questa realtà, vogliamo fare un'indagine presso alcune voci autorevoli all'interno della Chiesa.
Nell'enciclica Populorum Progressio (1967), dedicata allo sviluppo dei popoli, il papa Paolo VI afferma che la giustizia sociale richiede delle dimensioni planetarie. Esige pertanto un intervento urgente e organizzato di individui e comunità per raggiungere l'umanesimo che, per essere autentico, deve essere integrale, vale a dire, "la realizzazione di ogni uomo e di tutto l'uomo". In questo contesto, la giustizia sociale è un impegno enorme di solidarietà universale per l'avanzamento totale di tutti gli uomini, specialmente quelli che vivono in condizioni di miseria inaccettabili. Ciò si riferisce direttamente al tema del commercio internazionale e richiede un rapporto di parità nel commercio per consentire ai poveri di essere in grado di raggiungere le condizioni favorevoli per il loro benessere. Infine, l'enciclica ricorda l'indissolubile legame tra giustizia e carità e dice che non si riesce a stabilire la pace senza la giustizia. Questa pace è opera della giustizia (opus iustitiae pax) che è una lotta contro la povertà e l'ingiustizia, per migliorare le condizioni di vita e promuovere il progresso umano e spirituale di tutti, vale a dire, il bene comune dell'umanità. Questa è la realizzazione della giustizia perfetta.
Dopo la Populorum progressio, Paolo VI ritorna sullo stesso tema nella Octogesima Adveniens (1976), per sottolineare l'urgenza di conseguire una maggiore giustizia nella distribuzione delle merci, all'interno delle comunità sia nazionali sia internazionali. E a questo proposito, la lettera apostolica richiede di superare i rapporti di potere nel commercio mondiale, perché l'uso della forza non ha mai permesso l'instaurazione di giustizia e di pace duratura. La giustizia diventa l'obbligo giuridico di consentire a ogni paese di promuovere il proprio sviluppo, secondo le proprie capacità e livello socio-politico:
Il dovere più importante della giustizia è di consentire a ogni paese di promuovere il proprio sviluppo, nel quadro di una cooperazione esente da qualunque spirito di dominio economico e politico.
Una delle grandi novità di questa lettera apostolica è certamente l'affermazione che bisogna "de-privatizzare" la questione sociale e andare oltre la tradizionale dicotomia tra politica ed economia. Perché, secondo questa nuova visione, il problema della giustizia nelle relazioni all'interno della comunità e al livello internazionale non può portare a soluzione efficace e sostenibile senza il coinvolgimento del settore politico e istituzionale. Tutti i principali problemi socio-economici che distruggono il mondo richiedono decisioni politiche per essere davvero risolti.
Così si afferma il primato della politica sull'economia, la necessità di un impegno politico più diligente e aperto a nuove forme di partecipazione democratica per la realizzazione della giustizia sociale. E il seguito logico di questo ragionamento è un invito ai cristiani di mettere in pratica la "dimensione politica della fede", impegnandosi responsabilmente in un'azione politica che sarà in grado di portare alla realizzazione degli ideali di giustizia sociale che la fede cristiana ispira. La Octogesima Adveniens afferma infatti:
Non basta ricordare i principi, affermare le intenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denunce profetiche: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da un'azione effettiva. È troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale. Questa umiltà di fondo toglierà all'azione ogni durezza e ogni settarismo ed eviterà altresì lo scoraggiamento di fronte a un compito che appare smisurato.
Tale prospettiva ha sempre un orizzonte e un fondamento teologico:
Il cristiano alimenta la propria speranza sapendo innanzi tutto che il Signore è all'opera con noi nel mondo e che attraverso il suo corpo che è la chiesa - e per essa in tutta l'umanità - prosegue la redenzione compiuta sulla croce e che esplose in vittoria la mattina della risurrezione (cf. Mt 28,30; Fil 2,8-11); sapendo ancora che altri uomini sono all'opera per dar vita ad azioni convergenti di giustizia e di pace; poiché dietro il velo dell'indifferenza c'è nel cuore di ogni uomo una volontà di vita fraterna e una sete di giustizia e di pace che si devono far fiorire.
Inoltre, è anche importante vedere come il problema è stato affrontato in alcuni sinodi dei vescovi negli ultimi anni. Facciamo riferimento a due documenti della Conferenza Episcopale Latino-Americana, e ad una lettera di esortazione del Simposio delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar (SCEAM). Quest'ultimo raccomanda che per un'evangelizzazione profonda, abbiamo bisogno di unire annuncio evangelico e discorso su un autentico sviluppo umano, altrimenti sarebbe un evangelizzazione troncata che non porta frutto. Intanto, lo SCEAM afferma quanto segue:
La Chiesa in Africa ha sofferto di una generale tendenza a considerare l'evangelizzazione e la promozione umana come progetti paralleli. C'era quasi una giustapposizione dei due settori [...]. Una concezione dualistica della missione ha a lungo segnato la nostra evangelizzazione. Mancava una visione teologica per unificare questi due aspetti della missione. Ciò non causa una evangelizzazione profonda e un'autentica promozione umana.
Per quanto riguarda dell'Episcopato Latinoamericano, il tema della promozione della giustizia sociale è fondamentale nella riflessione sulla missione della Chiesa dopo la Conferenza di Medellin nel 1968 e il Sinodo dei Vescovi in 1971 sulla giustizia nel mondo:
La lotta per la giustizia e la partecipazione alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente, ha detto il sinodo, come dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, che è la missione della Chiesa.
Paolo VI e Giovanni Paolo II fanno di questo tema un punto centrale del loro ministero quando indicano come un dovere per la Chiesa la ricerca del bene di tutto l'uomo, la denuncia delle ingiustizie e la promozione dei diritti umani. Giustizia e carità, lungi dall'escludersi a vicenda, sono da pensare insieme.
Però, mentre la Populorum Progressio si concentra sullo sviluppo come il nuovo nome della pace, entrambi i documenti della Conferenza Episcopale latino-americana hanno sottolineato la liberazione integrale dell'uomo e sono particolarmente diffidenti nei confronti della terminologia del sottosviluppo che tradisce la tendenza a dare la colpa al cosiddetto Terzo Mondo riguardo alla propria situazione miserabile. Questo è un appello inequivocabile per fermare ogni tipo di dominazione tra i paesi del nord e quelli del sud, tra le potenze coloniali e le loro ex colonie, una chiamata per mettere un fine al colonialismo politico ed economico. È solo in questo contesto che si può davvero parlare di giustizia sociale per tutti.
Gli elementi chiave individuati dall'episcopato in materia di giustizia sociale possono essere riassunti in questo modo:
1) la consapevolezza dell'ingiustizia nel mondo non è un caso occasionale e contingente, ma profonda e strutturale;
2) il riconoscimento che il problema dello squilibrio nel commercio internazionale non è ancora vicino ad una soluzione coerente, a causa di un difetto inerente al sistema socio-economico capitalista, che si concentra sul massimo guadagno piuttosto che sull'equità e il benessere sociale ;
3) la confessione inequivocabile di gravi inosservanze della giustizia all'interno della Chiesa stessa, che riduce la sua credibilità quando si fa promotrice di giustizia sociale ;
4) il riconoscimento del diritto dei laici a partecipare responsabilmente alla gestione dei beni ecclesiastici ;
5) la condanna dei sistemi educativi contemporanei che favoriscono un individualismo stretto e generano uomini interamente "modellati" nel sistema già esistente ; e, infine,
6) l'invito ad una formazione permanente, sostenuta da un'azione ecumenica per la realizzazione della giustizia.
Così, la giustizia sociale è qui vista come la liberazione dalle ingiustizie, non solo individuali ma anche collettive, perché in un contesto sociale sostanzialmente ingiusto il peccato individuale diventa più favorito. Di qui la necessità della lotta per la liberazione dalle "strutture di peccato" erette in sistemi nel cuore della società.
In quanto riguarda l'Africa, quali sono le cause d'ingiustizia che si possono individuare in modo particolare all'infuori si quelle già segnalati, e che tipo d'intervento si può aspettare da parte della Chiesa e della sua autorità?
2. L'Africa e le cause d'ingiustizia
Le forme di sofferenza dell'Africa odierna hanno le loro radici nell'antichità. Così possiamo dire che L'Afrique noire est mal partie, usando il titolo di un libro di René Dumont. Uno sguardo sulla storia di questa parte del mondo rivela le atrocità delle guerre tribali, la schiavitù, l'imperialismo delle potenze straniere, con le loro conseguenze, e cioè: la colonizzazione, la balcanizzazione e l'acculturazione dei suoi popoli che gridano dall'interno del continente, il bullismo, l'odio e la discriminazione razziale, la legge della giungla secondo cui i più forti continuano ad opprimere i più deboli, la corruzione, il disordine sociale e il malgoverno, le malattie infettive, ecc. La conoscenza dei veri problemi dell'Africa è un fondamento essenziale per l'adozione di una strategia che possa portare ad un esito positivo. Infatti,
L'Africa è un continente in cui innumerevoli esseri umani - uomini e donne, bambini e giovani - sono distesi, in qualche modo, sul bordo della strada, malati, feriti, impotenti, emarginati e abbandonati. Essi hanno un bisogno estremo di buoni Samaritani che vengano loro in aiuto.
Di fronte a questa situazione, i credenti in Africa "ancora non capiscono il motivo per cui, per secoli, sembrano condannati a soffrire" ; sono stati per sempre abbandonati da Dio?
L'Africa, ovviamente, ha anche la sua fortuna, le sue gioie e felicità. Il suo incontro con gli altri popoli non ha portato solo guai e ingiustizie, anzi si è arricchita su diversi punti di vista. Ciò che è detto un po' prima non intende negare questo aspetto. Tuttavia, la dimensione assunta dal male e dalla sofferenza in questa parte del mondo ci spinge a guardare piuttosto le sue miserie e a chiederci in che modo si può trovare una soluzione.
La ricerca delle radici del male e della sofferenza in Africa è in sintonia con un'inculturazione che tenga conto dell'integralità della vita dell'uomo e non solo di aspetti settoriali come degli adeguamenti liturgici e culturali.
Il male in Africa può essere identificato anche con la mancanza di solidarietà all'interno delle famiglie, delle comunità tribali o regionali, delle nazioni e delle entità internazionali. La solidarietà è vera quando diventa capace di estendersi al di là degli interessi personali e della propria comunità, per includere l'altro nella carità che è Cristo. L'assenza di una tale solidarietà costituisce un terreno favorevole per trasformare ogni tipo di incomprensione in motivo di minacce e di conflitti che poi sbocciano in guerre e distruzioni abominevoli. Senza una vera solidarietà nessuna comunità può veramente sussistere e unire le sue energie per combattere il male dal di dentro o dal di fuori. Questo punto costituisce una debolezza che può venir guarita soltanto dal Vangelo e dallo Spirito di Cristo.
Inoltre, il "male assoluto" in Africa è identificato con la morte. Infatti, la vita è concepita come un conflitto permanente con la morte, come ha detto Engelbert Mveng, un gesuita camerunese:
Se l'essere dell'uomo è la Vita, il suo avversario è la Morte. Se il mondo è un'estensione dell'uomo, il suo essere è anche Vita, e la Morte è il suo avversario. Ma [...] ciò che costituisce la specificità dell'essere umano nella storia, non sono due realtà indipendenti: da una parte, la Vita, e dall'altra, la Morte. No! Lo specifico dell'uomo, è il confronto, hic et nunc, tra la Vita e la Morte.
Facciamo riferimento a questo aspetto per indicare che il timore della morte porta l'uomo, non solo in Africa, a allearsi a delle forze del male sia per scongiurare la morte e provare di vivere immortale, sia per uccidere quelli che sembrano una minaccia per la propria vita. E' un circolo vizioso in cui l'uomo non può uscire da solo se non lo raggiunge la grazia di Dio mediante la fede.
Di fronte a queste radici del male, della sofferenza e dell'ingiustizia, quale contributo può dare la Chiesa?
3. Il contributo della Chiesa per promuovere la giustizia
Una volta che le fonti del male e della sofferenza sono in qualche modo identificate, è importante organizzarsi come popolo di Dio, fornendo le risorse necessarie ispirate dalla fede per combatterle e sradicarle con la potenza divina di Cristo. Alla vista del male e della sofferenza, è giusto guardare alla Chiesa per trovare rifugio.
Per quanto riguarda l'Africa, la Chiesa compie davvero il suo ruolo? Non si scioglie forse troppo spesso in un certo "parlare" universale, astratto e senza impatto concreto sui fatti esistenziali dei suoi popoli? L'universalità è vera solo se si tiene conto delle peculiarità nella loro giusta prospettiva. In questo contesto, riteniamo che la Chiesa in Africa avrà la sua vera identità in quanto sarà il più vicino possibile alle comunità in cui vive e sarà in grado di formulare una teologia e una pastorale, che non sono semplicemente di copia-incolla, ma sono il risultato della riflessione in contatto permanente con le persone e la loro contestuale realtà.
Il male e la sofferenza hanno un nome e un volto a seconda dello spazio e del tempo. Spetta ai membri della Chiesa in Africa, comunitariamente e singolarmente, come laici e clero, di discernere continuamente nelle vicissitudini della vita, le radici del male e di sofferenza che minacciano l'integrità dell'esistenza umana, per fornire il giusto aiuto della Parola di Dio che guarisce dall'odio, dall'orgoglio e l'egoismo, dalla morte e dallo spavento che essa ispira, per compiere coraggiosamente le opere di giustizia, di verità, d'amore e di pace.
È la Parola di Dio e lo Spirito del Vangelo che possono rimediare alle mancanze delle culture africane. Abbiamo accennato alla mancanza di solidarietà e di fraternità, secondo lo Spirito di Cristo. La Chiesa deve lavorare molto in questo campo perché nascano in Africa delle comunità forti e solidali non per identità esclusiva ma inclusiva per poter poi affrontare le sfide con maggior efficacia, respingendo le dominazioni e le imposizioni ingiuste, per costituire delle società autonome in grado di trattare a uguaglianza con le altre comunità.
Peraltro, consideriamo che nell'opera sociale della Chiesa, il clero ha un compito di rilievo. Infatti, ogni comunità ha bisogno di modelli da seguire. Così nella Chiesa il coraggio di testimonianza evangelica dei suoi rappresentanti al livello della giustizia, della carità e della solidarietà degli uni verso gli altri, è molto importante per stimolare gli stessi valori in mezzo ai fedeli e in mezzo alla società tutta intera. La Chiesa d'Africa ha bisogno di nuovi "santi sociali" per fare sorgere una nuova umanità fondata sul Cristo.
Per questo, per promuovere una più grande giustizia sociale in armonia con la loro vocazione, specialmente i membri del clero sono invitati a fondare e sostenere delle opere di carità, a promuovere la solidarietà basata sull'universalismo della salvezza e l'unità della famiglia umana rivelata in Cristo Gesù. Sono anche invitati a dare un sostegno più consistente alle associazioni sociali e sindacali, così come ai partiti politici e alle personalità del governo sociale.
La Chiesa ha l'abitudine di intervenire in determinate situazioni socio-politiche nei momenti critici nella storia di un paese, per esempio, delegando un prelato a presiedere all'opera di riconciliazione e di pace. Essa ha, inoltre, l'esperienza di nominare cappellani per associazioni di fedeli, ospedali, scuole, campi militari, ecc. È una cosa buona. Tuttavia, riteniamo che questo livello di presenza e di azione non è sufficiente. Infatti, se il clero si limita solo ai fedeli o a alcuni settori della vita socio-politica, allora la sua azione non avrà un impatto notevole per il cambiamento auspicabile per società secondo lo spirito del Vangelo.
Quando i cittadini sono sostenuti in tutti gli ambiti della loro vita, da parte della Chiesa, dei suoi rappresentanti non solo individualmente, ma in modo organizzato, nel rispetto delle libertà, allora vi è più possibilità perché i motivi di ingiustizia e di conflitto siano identificati e disinnescati prima dell'esplosione. In questo modo, il clero, invece di fare il medico dopo la morte o il vigile di fuoco per spegnere gli incendi, potrà contribuire a prevenire, lavorando giorno dopo giorno nel campo della giustizia sociale insieme a tutti i fedeli e uomini di buona volontà.
Il compito di organizzare la Chiesa a lottare contro il male e la sofferenza a livello individuale, comunitario, nazionale e continentale, e promuovere la giustizia in tutte le sue dimensioni è un compito permanente a cui nessun membro della comunità ecclesiale può sottrarsi.
Questa prospettiva implica necessità di formazione adeguata tanto per i fedeli cristiani quanto per il clero. L'arte della diplomazia, il sostegno dei gruppi e associazioni senza mutarsi in dittatore, la buona conoscenza della dottrina sociale della Chiesa, la vita di fraternità e di servizio, sono tutti valori che devono diventare familiari per ogni cristiano, non solo al livello della conoscenza intellettuale, ma soprattutto in termini di vita pratica, per fare di lui un altro Cristo nel nostro tempo. Così, la giustizia e la pace, avranno maggiori probabilità di diventare una realtà tangibile per l'avvenimento del regno di Dio.
Notes :
Cf. A. BRUCCULERI S.I., "La giustizia sociale", La civiltà cattolica, Roma 1944, pp. 5ss; Martin S. GILLET O.P., Coscienza cristiana e giustizia sociale, Marietti, Torino 1927; S. AMARTYA, Collective Choice and Social Welfare, North-Holland, Amsterdam 1979; IDEM, L'idée de justice. "Combattre les inégalités de pouvoir autant que les inégalités de revenu", Flammarion, Paris 2010.
Cf. Sal 72,1-7; 85,11-13.
Cf. Kokouvi Paul ZIKPI, L'autorité ecclésiastique catholique et la justice sociale, L'Harmattan, Paris 2014, pp. 65-72.
Cf. R. LORTRAL, Morale sociale générale, Téqui, Paris 1935, p. 131; cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologica, II-II, q. 58, a. 5.
Cf. Leandro ROSSI - Ambrogio VALSECCHI (edd.), Dizionario enciclopedico di teologia morale, Edizioni Paoline, Roma 1976, pp. 457ss.
Cf. PAOLO VI, Lettera enciclica Populorum Progressio (26.03.1967), 4.
Ibidem, 14.
Cf. Ibidem, 3.
Cf. Ibidem, 58 e 61.
Cf. Ibidem, 75 e 76.
Cf. PAOLO VI, Lettera apostolica Octogesima Adveniens (14.05. 1976), 2.
Ibidem, 43.
Cf. Octogesima Adveniens, 46.
Cf. Ibidem, 47.
Ibidem, 48.
Ibidem.
SCEAM, "L'Eglise et la promotion humaine en Afrique aujourd'hui", Lettre d'exhortation de juillet 1984, 51 e 81, in J.-C. DJEREKE, L'engagement politique du clergé catholique en Afrique noire, Karthala, Paris 2001, p. 60.
CONFERENZA GENERALE DELL'EPISCOPATO LATINO-AMERICANO, Documenti del Sinodo, EDB, Bologna 1971, p. 7.
Cf. PAOLO VI, Populorum Progressio, 12; GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Laborem Exercens (14.09.1981), 20; IDEM, Lettera enciclica Sollicitudo Rei Socialis (30.12.1987), 12; IDEM, Lettera enciclica Centesimus Annus (01.05.1991), 58.
Cf. PAOLO VI, Populorum Progressio, 76-80.
CONFERENZA GENERALE DELL'EPISCOPATO LATINO-AMERICANO, Documenti del Sinodo, 1 e 3.
Cf. CGELA, Documenti del Sinodo, 18.
Cf. Ibidem.
Cf. Ibidem, 19.
Cf. Ibidem, 20.
Cf. René DUMONT, L'Afrique noire est mal partie, Seuil, Paris 1962.
Cf. Jean Marc ELA, Le cri de l'homme africain, L'Harmattan, Paris 1993.
GIOVANNI PAOLO II, Esortazione post-sinodale Ecclesia in Africa (14.09.1995), n. 41.
Ghislain TSHIKENDWA MATADI, De l'absurdité de la souffrance à l'espérance, Médiaspaul, Kinshasa 2005, p. 26.
Engelbert MVENG, L'Afrique dans l'Eglise. Paroles d'un croyant, L'Harmattan, Paris 1985, p. 36 (traduzione nostra).
Cf. Kokouvi Paul ZIKPI, Perspectives pastorales pour l'Eglise en Afrique noire. Réponse de Dieu au mal et à la souffrance, L'Harmattan, Paris 2014, pp. 65-82.
POURQUOI DES PERSPECTIVES PASTORALES POUR L'EGLISE D'AFRIQUE NOIRE ?
"Le discours qui n'a pas une source d'inspiration vraie est un discours mensonger ; et il l'est davantage tout discours qui formule de belles théories mais se retrouve dépourvu de perspectives d'action concrète".
La réflexion ne surgit jamais du néant. Toute pensée est toujours liée à un contexte historique et socioculturel bien déterminé. Ainsi, en Afrique, on ne saurait échapper à cette nécessité qui, entre autres, donne importance et valeur à ce qui se dit en vue d'une action bienfaisante.
Si nous nous sommes penché sur l'analyse de perspectives pastorales pour l'Eglise en Afrique noire, c'est eu égard à un certain nombre de facteurs que voici : une assertion généralement partagée selon laquelle le continent noir serait le dernier de tous les continents, non pas à cause de la pauvreté de ses richesses naturelles mais à cause de la misère existentielle dans laquelle vit la plupart de ses habitants, misère dont les acteurs et protagonistes sont identifiables ; la conviction personnelle d'après laquelle l'Eglise en tant que communauté de personnes rassemblées par la parole de Dieu - et donc au sein de laquelle l'Esprit de Dieu est à l'uvre - peut et doit s'investir de toutes ses forces pour l'avènement d'un monde meilleur au sein de cette partie de l'humanité ; et enfin, la certitude selon laquelle s'il n'y a pas de mesures concrètes prises de la part de l'Eglise pour aider les démunis et les malheureux, le mal et la souffrance ne sauraient se "transfigurer" et devenir voie de salut à travers le mystère de la croix du Christ.
Dans ce qui va suivre, nous allons essayer d'étayer ces arguments en fournissant de plus amples explications.
1. L'Afrique noire et ses misères
Le mal et la souffrance constituent une réalité universellement partagée par tout le genre humain - et ils s'étendent même au-delà de cette espèce existentielle. Mais quand il s'agit de l'Afrique noire, on a l'impression qu'il y a des multiplicateurs exponentiels. Il ne s'agit pas tout simplement d'une impression ; la réalité même de la vie et des faits atteste que le noir en général et l'africain noir en particulier a un sort moins agréable que celui des autres. Qui peut demeurer indifférents face à des êtres humains qui meurent de faim ou de soif, qui expirent parce qu'ils n'ont pas pu avoir accès à des soins minimum de santé ? Peut le faire certainement celui qui, encore à notre époque, est partisan de la malheureuse théorie selon laquelle les noirs ne seraient pas des êtres humains ! Le spectacle est effarant ! Seul qui a un cur de pierre peut réfléchir au milieu de telles populations en pensant à la hauteur des montagnes ou à la couleur des nuages, c'est-à-dire, à des choses abstraites et secondaires, d'après le cas considéré.
En effet,
"L'Afrique est un continent où d'innombrables êtres humains [ ] sont étendus, en quelque sorte, sur le bord de la route, malades, blessés, impotents, marginalisés et abandonnés. Ils ont besoin de bons Samaritains qui leur viennent en aide".
Face à cette situation, les croyants en Dieu en Afrique "ne comprennent pas toujours pourquoi, depuis des siècles, ils semblent condamnés à souffrir" ; ont-ils été pour toujours abandonnés par Dieu ?
L'Afrique noire, certes, dispose aussi de ses atouts, de ses forces, de ces joies et bonheurs. Cette réflexion n'a pas l'intention de nier cet aspect. Cependant, l'envergure prise par le mal et la souffrance dans cette partie du monde nous pousse à nous pencher plutôt sur ses misères.
C'est donc pour aider à trouver une réponse aux interrogations existentielles que nous avons décidé d'aborder un tel sujet, en nous appuyant sur l'immense richesse humaine et spirituelle de la foi chrétienne, cette foi fondamentalement basée sur Jésus Christ de Nazareth en qui Dieu se révèle, non pas comme un Tout-puissant solitaire et retiré dans un ciel inaccessible mais comme le Dieu-ami-des-hommes qui chemine avec eux et prend part à leurs souffrances et à leurs luttes en vue de les libérer du mal et de la mort et leur communiquer sa vie bienheureuse et immortelle.
2. Que fait l'Eglise en Afrique noire ?
Devant le spectacle du mal et de la souffrance, l'on a raison de se tourner vers l'Eglise en vue de trouver refuge. Car, comme nous l'avons dit précédemment, elle est censée être la communauté de Dieu sur la terre et, en tant que telle, doit être en mesure d'offrir la réponse de Dieu aux hommes excédés par le malheur et leur apporter la consolation divine, ainsi que son soutien et son salut.
En ce qui concerne l'Afrique noire, l'Eglise joue-t-elle réellement son rôle ? Ne se fond-elle pas trop souvent dans une certaine Eglise universelle, abstraite et sans incidence concrète sur les faits existentiels de ses peuples ? L'universalité elle-même n'est vraie que lorsqu'elle prend en compte les particularités dans leur juste mesure. Dans cette optique, nous estimons que l'Eglise d'Afrique aura son identité véritable dans la mesure où elle sera la plus proche possible des populations au sein desquelles elle vit et sera apte à formuler une théologie et une pastorale qui ne soient pas tout simplement du copié-collé mais qui soient le fruit de la réflexion contextuelle nourrie du contact permanent avec le peuple et ses réalités.
Le mal et la souffrance ont un nom et un visage selon le contexte historique et géographique où l'on se situe. Il appartient donc aux membres de l'Eglise, communautairement et individuellement, en tant que laïcs et clercs, de discerner continuellement au sein des vicissitudes de la vie, les racines du mal et de la souffrance qui menacent l'intégrité de l'existence humaine, afin d'apporter le juste secours de la parole de Dieu et de sa guérison. Le mal absolu en Afrique noire est identifié à la mort. En effet, la vie est perçue comme un conflit permanent avec la mort, comme le dit Engelbert Mveng :
"Si l'être de l'homme est Vie, l'adversaire de cet être est la Mort. Si le monde est le prolongement de l'homme, son être est également Vie, et son adversaire est la Mort. Mais [ ] ce qui fait la spécificité de l'être de l'homme dans l'Histoire, ce ne sont pas deux réalités autonomes : d'une part, la Vie, et de l'autre, la Mort. Non ! Ce qui fait la spécificité de l'homme, c'est l'affrontement, hic et nunc, de la Vie et de la Mort".
Le discours au sujet de l'inculturation doit être un discours qui tienne compte de l'intégralité de la vie des peuples : il ne doit pas concerner uniquement des aménagements sectoriels - tels que des adaptations liturgiques et culturelles - mais prendre en considération le cadre général de la vie de l'homme pour le rejoindre là où il vit, là où il lutte, là où il souffre et meurt, afin de lui apporter de manière adaptée le Dieu qui relève et donne vie.
La recherche des sources du mal et de la souffrance en Afrique noire dans l'ouvrage Perspectives pastorales se situe dans la droite ligne d'une telle inculturation. Pour soigner un malade, le bon médecin commence par le diagnostic en vue de l'application de la cure adaptée. C'est ainsi que d'après notre diagnostic, les causes de la plupart des détresses actuelles du contient noir se révèlent comme étant les multiples guerres de l'Antiquité et du présent, l'esclavage ravageur, la colonisation passée et présente, les brimades, la haine et la discrimination raciale, la loi de la jungle d'après laquelle les plus forts continuent à opprimer les plus faibles, la corruption, le désordre social et la mauvaise gouvernance, les maladies infectieuses, etc. La connaissance des véritables maux de l'Afrique noire constitue un fondement incontournable en vue de l'adoption d'une stratégie susceptible d'amener à une heureuse issue.
3. Les perspectives pastorales
"L'Afrique a besoin de guérison et d'un véritable exorcisme pour se remettre debout. Et puisque son mal se situe à plusieurs niveaux, la libération qu'apporte la croix du Christ doit être elle aussi multidimensionnelle".
Une fois que les sources du mal et de la souffrance sont identifiées, il est important de s'organiser en tant que peuple de Dieu en se procurant des moyens nécessaires inspirés par la foi pour les combattre et les déraciner avec la force divine donnée par le Christ.
Nombreux sont ceux qui parlent aujourd'hui du mal de l'Afrique, mais peu sont ceux qui ont en main des approches de solutions fiables. Le discours qui n'a pas une source d'inspiration vraie est un discours mensonger ; et il l'est davantage tout discours qui formule de belles théories mais se retrouve dépourvu de perspectives d'action concrète. Eu égard à cet état de fait, la ligne de pensée initiée par l'ouvrage dont nous sommes en train de parler ne vise autre chose que proposer des pistes d'action concrètes et réalisables en cours et long terme. Et ces propositions ont leur origine dans la "sagesse de la croix du Christ". S'il est vrai qu'il existe une sagesse divine qui gouverne le monde, toute vraie sagesse doit s'inspirer de cette source inépuisable ; à plus forte raison, a-t-on besoin de recourir à cette sagesse lorsqu'il s'agit d'aborder des questions cruciales comme celles relatives au mal et à la souffrance dans l'existence humaine.
En conclusion, comment s'organiser de la part de l'Eglise noire africaine pour lutter contre le mal et la souffrance aux niveaux individuel, communautaire, national et continental et promouvoir l'épanouissement de la vie dans toutes ses dimensions ? Voilà à notre sens des aspects de la question qui ne doivent pas être négligés et que l'ouvrage prend en considération avec l'attention nécessaire, tout en reconnaissant que l'on ne saurait être exhaustif dans un tel domaine.
Notes :
JEAN - PAUL II, Ecclesia in Africa, n.41.
GHISLAIN TSHIKENDWA MATADI, De l'absurdité de la souffrance à l'espérance, Médiapaul, Kinshasa 2005, p.26.
ENGELBERT MVENG, L'Afrique dans l'Eglise : paroles d'un croyant, L'Harmattan, Paris 1986, p.36.
Perspectives pastorales pour l'Eglise en Afrique noire. Réponse de Dieu au mal et à la souffrance, L'Harmattan, Paris 2014
Cf. Perspectives pastorales , L'Harmattan, Paris 2014, p.75.
Cf. 1Co 1, 21-24; 2,6-9.
Cf. Perspectives pastorales , pp.65-82.
POURQUOI DES PERSPECTIVES PASTORALES POUR L'EGLISE D'AFRIQUE NOIRE ?
"Le discours qui n'a pas une source d'inspiration vraie est un discours mensonger ; et il l'est davantage tout discours qui formule de belles théories mais se retrouve dépourvu de perspectives d'action concrète".
La réflexion ne surgit jamais du néant. Toute pensée est toujours liée à un contexte historique et socioculturel bien déterminé. Ainsi, en Afrique, on ne saurait échapper à cette nécessité qui, entre autres, donne importance et valeur à ce qui se dit en vue d'une action bienfaisante.
Si nous nous sommes penché sur l'analyse de perspectives pastorales pour l'Eglise en Afrique noire, c'est eu égard à un certain nombre de facteurs que voici : une assertion généralement partagée selon laquelle le continent noir serait le dernier de tous les continents, non pas à cause de la pauvreté de ses richesses naturelles mais à cause de la misère existentielle dans laquelle vit la plupart de ses habitants, misère dont les acteurs et protagonistes sont identifiables ; la conviction personnelle d'après laquelle l'Eglise en tant que communauté de personnes rassemblées par la parole de Dieu - et donc au sein de laquelle l'Esprit de Dieu est à l'uvre - peut et doit s'investir de toutes ses forces pour l'avènement d'un monde meilleur au sein de cette partie de l'humanité ; et enfin, la certitude selon laquelle s'il n'y a pas de mesures concrètes prises de la part de l'Eglise pour aider les démunis et les malheureux, le mal et la souffrance ne sauraient se "transfigurer" et devenir voie de salut à travers le mystère de la croix du Christ.
Dans ce qui va suivre, nous allons essayer d'étayer ces arguments en fournissant de plus amples explications.
1. L'Afrique noire et ses misères
Le mal et la souffrance constituent une réalité universellement partagée par tout le genre humain - et ils s'étendent même au-delà de cette espèce existentielle. Mais quand il s'agit de l'Afrique noire, on a l'impression qu'il y a des multiplicateurs exponentiels. Il ne s'agit pas tout simplement d'une impression ; la réalité même de la vie et des faits atteste que le noir en général et l'africain noir en particulier a un sort moins agréable que celui des autres. Qui peut demeurer indifférents face à des êtres humains qui meurent de faim ou de soif, qui expirent parce qu'ils n'ont pas pu avoir accès à des soins minimum de santé ? Peut le faire certainement celui qui, encore à notre époque, est partisan de la malheureuse théorie selon laquelle les noirs ne seraient pas des êtres humains ! Le spectacle est effarant ! Seul qui a un cur de pierre peut réfléchir au milieu de telles populations en pensant à la hauteur des montagnes ou à la couleur des nuages, c'est-à-dire, à des choses abstraites et secondaires, d'après le cas considéré.
En effet,
"L'Afrique est un continent où d'innombrables êtres humains [ ] sont étendus, en quelque sorte, sur le bord de la route, malades, blessés, impotents, marginalisés et abandonnés. Ils ont besoin de bons Samaritains qui leur viennent en aide".
Face à cette situation, les croyants en Dieu en Afrique "ne comprennent pas toujours pourquoi, depuis des siècles, ils semblent condamnés à souffrir" ; ont-ils été pour toujours abandonnés par Dieu ?
L'Afrique noire, certes, dispose aussi de ses atouts, de ses forces, de ces joies et bonheurs. Cette réflexion n'a pas l'intention de nier cet aspect. Cependant, l'envergure prise par le mal et la souffrance dans cette partie du monde nous pousse à nous pencher plutôt sur ses misères.
C'est donc pour aider à trouver une réponse aux interrogations existentielles que nous avons décidé d'aborder un tel sujet, en nous appuyant sur l'immense richesse humaine et spirituelle de la foi chrétienne, cette foi fondamentalement basée sur Jésus Christ de Nazareth en qui Dieu se révèle, non pas comme un Tout-puissant solitaire et retiré dans un ciel inaccessible mais comme le Dieu-ami-des-hommes qui chemine avec eux et prend part à leurs souffrances et à leurs luttes en vue de les libérer du mal et de la mort et leur communiquer sa vie bienheureuse et immortelle.
2. Que fait l'Eglise en Afrique noire ?
Devant le spectacle du mal et de la souffrance, l'on a raison de se tourner vers l'Eglise en vue de trouver refuge. Car, comme nous l'avons dit précédemment, elle est censée être la communauté de Dieu sur la terre et, en tant que telle, doit être en mesure d'offrir la réponse de Dieu aux hommes excédés par le malheur et leur apporter la consolation divine, ainsi que son soutien et son salut.
En ce qui concerne l'Afrique noire, l'Eglise joue-t-elle réellement son rôle ? Ne se fond-elle pas trop souvent dans une certaine Eglise universelle, abstraite et sans incidence concrète sur les faits existentiels de ses peuples ? L'universalité elle-même n'est vraie que lorsqu'elle prend en compte les particularités dans leur juste mesure. Dans cette optique, nous estimons que l'Eglise d'Afrique aura son identité véritable dans la mesure où elle sera la plus proche possible des populations au sein desquelles elle vit et sera apte à formuler une théologie et une pastorale qui ne soient pas tout simplement du copié-collé mais qui soient le fruit de la réflexion contextuelle nourrie du contact permanent avec le peuple et ses réalités.
Le mal et la souffrance ont un nom et un visage selon le contexte historique et géographique où l'on se situe. Il appartient donc aux membres de l'Eglise, communautairement et individuellement, en tant que laïcs et clercs, de discerner continuellement au sein des vicissitudes de la vie, les racines du mal et de la souffrance qui menacent l'intégrité de l'existence humaine, afin d'apporter le juste secours de la parole de Dieu et de sa guérison. Le mal absolu en Afrique noire est identifié à la mort. En effet, la vie est perçue comme un conflit permanent avec la mort, comme le dit Engelbert Mveng :
"Si l'être de l'homme est Vie, l'adversaire de cet être est la Mort. Si le monde est le prolongement de l'homme, son être est également Vie, et son adversaire est la Mort. Mais [ ] ce qui fait la spécificité de l'être de l'homme dans l'Histoire, ce ne sont pas deux réalités autonomes : d'une part, la Vie, et de l'autre, la Mort. Non ! Ce qui fait la spécificité de l'homme, c'est l'affrontement, hic et nunc, de la Vie et de la Mort".
Le discours au sujet de l'inculturation doit être un discours qui tienne compte de l'intégralité de la vie des peuples : il ne doit pas concerner uniquement des aménagements sectoriels - tels que des adaptations liturgiques et culturelles - mais prendre en considération le cadre général de la vie de l'homme pour le rejoindre là où il vit, là où il lutte, là où il souffre et meurt, afin de lui apporter de manière adaptée le Dieu qui relève et donne vie.
La recherche des sources du mal et de la souffrance en Afrique noire dans l'ouvrage Perspectives pastorales se situe dans la droite ligne d'une telle inculturation. Pour soigner un malade, le bon médecin commence par le diagnostic en vue de l'application de la cure adaptée. C'est ainsi que d'après notre diagnostic, les causes de la plupart des détresses actuelles du contient noir se révèlent comme étant les multiples guerres de l'Antiquité et du présent, l'esclavage ravageur, la colonisation passée et présente, les brimades, la haine et la discrimination raciale, la loi de la jungle d'après laquelle les plus forts continuent à opprimer les plus faibles, la corruption, le désordre social et la mauvaise gouvernance, les maladies infectieuses, etc. La connaissance des véritables maux de l'Afrique noire constitue un fondement incontournable en vue de l'adoption d'une stratégie susceptible d'amener à une heureuse issue.
3. Les perspectives pastorales
"L'Afrique a besoin de guérison et d'un véritable exorcisme pour se remettre debout. Et puisque son mal se situe à plusieurs niveaux, la libération qu'apporte la croix du Christ doit être elle aussi multidimensionnelle".
Une fois que les sources du mal et de la souffrance sont identifiées, il est important de s'organiser en tant que peuple de Dieu en se procurant des moyens nécessaires inspirés par la foi pour les combattre et les déraciner avec la force divine donnée par le Christ.
Nombreux sont ceux qui parlent aujourd'hui du mal de l'Afrique, mais peu sont ceux qui ont en main des approches de solutions fiables. Le discours qui n'a pas une source d'inspiration vraie est un discours mensonger ; et il l'est davantage tout discours qui formule de belles théories mais se retrouve dépourvu de perspectives d'action concrète. Eu égard à cet état de fait, la ligne de pensée initiée par l'ouvrage dont nous sommes en train de parler ne vise autre chose que proposer des pistes d'action concrètes et réalisables en cours et long terme. Et ces propositions ont leur origine dans la "sagesse de la croix du Christ". S'il est vrai qu'il existe une sagesse divine qui gouverne le monde, toute vraie sagesse doit s'inspirer de cette source inépuisable ; à plus forte raison, a-t-on besoin de recourir à cette sagesse lorsqu'il s'agit d'aborder des questions cruciales comme celles relatives au mal et à la souffrance dans l'existence humaine.
En conclusion, comment s'organiser de la part de l'Eglise noire africaine pour lutter contre le mal et la souffrance aux niveaux individuel, communautaire, national et continental et promouvoir l'épanouissement de la vie dans toutes ses dimensions ? Voilà à notre sens des aspects de la question qui ne doivent pas être négligés et que l'ouvrage prend en considération avec l'attention nécessaire, tout en reconnaissant que l'on ne saurait être exhaustif dans un tel domaine.
Notes :
JEAN - PAUL II, Ecclesia in Africa, n.41.
GHISLAIN TSHIKENDWA MATADI, De l'absurdité de la souffrance à l'espérance, Médiapaul, Kinshasa 2005, p.26.
ENGELBERT MVENG, L'Afrique dans l'Eglise : paroles d'un croyant, L'Harmattan, Paris 1986, p.36.
Perspectives pastorales pour l'Eglise en Afrique noire. Réponse de Dieu au mal et à la souffrance, L'Harmattan, Paris 2014
Cf. Perspectives pastorales , L'Harmattan, Paris 2014, p.75.
Cf. 1Co 1, 21-24; 2,6-9.
Cf. Perspectives pastorales , pp.65-82.
CLERGE CATHOLIQUE ET DEVOIR DE JUSTICE SOCIALE
"si le clergé attend seulement la période des situations extrêmes avant de sortir ses armes de paix, ou encore si elle limite le juste secours qu'il doit donner uniquement à certains secteurs de la vie sociopolitique, alors il prive la société d'une aide importante qui fait partie de son devoir d'état : ce qui, en langage spirituel, constitue un péché d'omission".
Parler de justice sociale nous donne la sensation de nous trouver devant un océan à boire et à vider. La question est tellement complexe que même des auteurs de référence ne s'y retrouvent pas très bien et se contredisent la plupart du temps. Et lorsqu'on pense parvenir à une conclusion à ce propos, voilà que la question surgit de nouveau dans toute sa vigueur. S'il faut ajouter à cette première difficulté une seconde qui concerne la juste intervention de l'autorité de l'Eglise en vue de promouvoir cette vertu primordiale de la communauté humaine, alors on est un peu comme au comble de l'embarras.
Et pourtant, la question nous paraît valoir la peine d'être posée, car nous sommes convaincu que non seulement les fidèles laïcs mais aussi les membres du clergé catholique peuvent et doivent apporter une contribution consistante pour la résolution des problèmes sociopolitiques et l'amélioration des conditions de vie sociale. Or, faire une telle affirmation suppose que l'on ait les reins solides ; ce qui revient à dire qu'il ne suffit pas seulement de l'affirmer mais de le démontrer scientifiquement en s'appuyant sur les fondements de la foi chrétienne pour le prouver et montrer de manière claire comment une telle vision théologique peut être mise en pratique dans la réalité.
Ce sont là les deux points essentiels que notre ouvrage L'autorité ecclésiastique catholique et la justice sociale aborde dans un débat difficile et passionnant et que nous voulons présenter dans cet article de manière succincte et compréhensible, dans la mesure du possible.
1. Le clergé est-il tenu par devoir de promouvoir la justice sociale ?
Une telle demande paraît simple, mais, en réalité, y répondre de manière adéquate nécessite une véritable étude des sources de la foi chrétienne. En effet, ce n'est pour rien que le Code de droit canonique - qui est la loi disciplinaire régissant les divers aspects de la vie de l'Eglise universelle - fait à maintes reprises des interdictions claires et fermes au sujet de l'intervention des membres du clergé dans certains domaines de la vie sociopolitique tels que : l'exercice direct du pouvoir public aussi bien législatif, exécutif que judiciaire ; des activités syndicales ou commerciales susceptibles de compromettre gravement l'objectif primordial de la vocation sacerdotale qui est un appel à servir Dieu et les hommes dans la proclamation de la parole et l'offrande des sacrifices.
Ceci revient-il à dire que le clerc doit prendre ses distances vis-à-vis de tout ce qui touche la sphère sociopolitique ? Certes, non. Sinon comment serait-il dans ce cas le messager de justice et de paix dont parle l'Ecriture Sainte ? C'est pourquoi on peut dire que l'intention exprimée dans la loi universelle de l'Eglise ne vise pas à empêcher le clerc d'uvrer pour la promotion de la justice sociale mais d'établir des limites à ne pas franchir en temps normal et sauvegarder l'autonomie et la distinction des réalités spirituelles et temporelles.
Ceci étant, il reste à clarifier le type de relation qui lie le clerc aux réalités de son temps. Ce que le droit de l'Eglise ne précise pas suffisamment, laissant planer un flou assez dangereux à notre avis. Car, si la loi définit clairement ce que le clerc ne doit pas faire mais ne dit pas explicitement ce qu'il doit faire dans le domaine indiqué, alors il y a problème : est-ce à dire qu'il doit s'abstenir absolument de toute initiative à l'égard de la question - devenant ainsi un officiant de sacristie -, ou bien doit-il décider de certaines initiatives personnelles qui ne sont pas sous le coup des interdictions - ce qui relèguerait son intervention dans l'ordre de l'éventualité ou de l'accessoire, voire même du relativisme personnel ? C'est dans cet espace de flou juridique que se déroule notre réflexion ; car nous ne considérons pas cette absence de législation comme un problème uniquement canonique mais avant tout comme un problème théologique.
En effet, si le législateur évite de légiférer positivement sur un sujet, c'est très probable qu'il n'a pas suffisamment d'éléments convaincants qui le poussent à le faire : et dans notre cas, nous estimons qu'il y a manque d'arguments théologiques qui puissent porter à considérer comme un devoir l'engagement du clerc en vue de la promotion de la justice sociale.
Voilà pourquoi, fort de notre conviction de départ, nous nous sommes mis à la recherche des principes théologiques qui peuvent consentir à l'affirmation du devoir dont nous parlons. Une fois ces principes assez solidement établis à travers une étude documentée de la Révélation biblique, de l'expérience de l'Eglise et de la réflexion théologique, il convient de songer à la mise en pratique du devoir qu'ils induisent. Car, nous dit saint Jacques, la foi sans les uvres est bel et bien morte.
2. Comment le clerc doit-il agir dans le sociopolitique ?
Avant tout, nous insistons sur le fait que le Code de droit canonique doit mentionner dans sa prochaine révision, comme une nouvelle directive, ce devoir qui, selon nous, est suffisamment fondée d'après cette réflexion théologique. En effet, c'est la parole du droit et son mot d'ordre qui est en mesure de mobiliser les énergies cléricales pour apporter leur contribution à "la construction de la cité terrestre dans sa marche vers la cité céleste". Les moyens, les méthodes et les modes d'actions seront toujours jugés et discernés selon les circonstances des temps et des lieux. Si la loi fait connaître au clerc que cette action fait partie de son devoir d'état et qu'elle lui fournit des éléments de conviction, un pas important sera franchi dans la collaboration entre réalités spirituelles et temporelles. Nous parlons de collaboration et non de substitution aux agents politiques ou de confusion des deux domaines : cette précision est de taille en vue d'éviter ce qui, de part le passé, a conduit à des erreurs dans la vie de l'Eglise.
Voilà pourquoi, en guise de suggestion, nous mettons l'accent sur l'accompagnement des associations sociales et syndicales, ainsi que des partis et des personnalités politiques de la part des membres du clergé. L'Eglise a l'habitude d'intervenir dans certaines situations sociopolitiques durant des moments critiques de l'histoire d'un pays, en délégant par exemple un prélat pour présider à l'uvre de réconciliation et de paix ; elle a également l'habitude de nommer des aumôniers pour des associations de fidèles chrétiens, des hôpitaux, des écoles, des camps militaires, etc. C'est une bonne chose. Cependant, nous pensons que ce niveau d'action est insuffisant. En effet, si le clergé attend seulement la période des situations extrêmes avant de sortir ses armes de paix, ou encore si elle limite le juste secours qu'il doit donner uniquement à certains secteurs de la vie sociopolitique, alors il prive la société d'une aide importante qui fait partie de son devoir d'état : ce qui, en langage spirituel, constitue un péché d'omission.
En accompagnant les concitoyens dans tous les secteurs de leur vie, non seulement individuellement mais de manière organisée et soutenue, il y a plus de chance que les motifs de conflit soient décelés et désamorcés avant leur explosion. De cette manière, le clergé évitera de faire le médecin après la mort ou le sapeur-pompier, passant de délégation en délégation pour éteindre les feux, puisque la sagesse enseigne que prévenir vaut mieux que guérir.
Pour finir, une telle perspective implique une exigence de formation appropriée aussi bien pour les fidèles chrétiens que pour les clercs eux-mêmes. L'art de la diplomatie, d'accompagnement des associations et groupes sans s'ériger en dictateur, la bonne connaissance de l'enseignement social de l'Eglise, la vie de fraternité et de service, constituent autant de valeurs qui doivent devenir familières au clerc non seulement au niveau de la connaissance intellectuelle mais surtout au niveau de la vie pratique, en vue de faire de lui un bon pasteur et un bon compagnon des hommes selon le cur de Dieu. Et alors, la justice et la paix tant souhaitées auront plus de chance de devenir une réalité palpable en vue de l'avènement du règne de Dieu.
Notes :
Voir à ce sujet : A. BRUCCULERI S.I., La giustizia sociale, La civiltà cattolica, Roma 1944, p.5ss ; GILLET O. P., Coscienza cristiana e giustizia sociale, Casa Editrice Marietti, Torino 1927 ; S. AMARTYA, Collective Choice and Social Welfare, North-Holland, Amsterdam 1979 ; ID., L'idée de justice. "Combattre les inégalités de pouvoir autant que les inégalités de revenu", traduction française de Paul Chemla avec la collaboration d'Eloi Laurent, Flammarion, Paris 2010.
L'autorité ecclésiastique catholique et la justice sociale, L'Harmattan, Paris 2014.
Cf. Code de droit canonique, can.285-287 ; Catéchisme de l'Eglise catholique, n.2442.
Cf. Is 61,1-3 ; Lc 4,18-19.
Cf. CONCILE VATICAN II, Gaudium et Spes, 36.
Cf. L'autorité ecclésiastique catholique et la justice sociale , pp.121-212 ; Voir aussi COSTE R., Les dimensions politiques de la foi, Les Editions ouvrières, Paris 1972 ; ID., La responsabilité politique de l'Eglise, Les Editions ouvrières, Paris 1973 ; J.B. METZ, La foi dans l'histoire et dans la société [Titre original : Glaube im Geschichte und im Gesellschaft. Studien zu einer praktischen Fundamentaltheologie, Matthias- Grünewald Verlag, Mainz 1977], Traduction française de Paul Corset et Jean-Louis Schlegel, Cerf, Paris 1999.
Cf. L'autorité ecclésiastique catholique et la justice sociale , pp.229-237.
Cf. Jc 2,26.
CLERGE CATHOLIQUE ET DEVOIR DE JUSTICE SOCIALE
"si le clergé attend seulement la période des situations extrêmes avant de sortir ses armes de paix, ou encore si elle limite le juste secours qu'il doit donner uniquement à certains secteurs de la vie sociopolitique, alors il prive la société d'une aide importante qui fait partie de son devoir d'état : ce qui, en langage spirituel, constitue un péché d'omission".
Parler de justice sociale nous donne la sensation de nous trouver devant un océan à boire et à vider. La question est tellement complexe que même des auteurs de référence ne s'y retrouvent pas très bien et se contredisent la plupart du temps. Et lorsqu'on pense parvenir à une conclusion à ce propos, voilà que la question surgit de nouveau dans toute sa vigueur. S'il faut ajouter à cette première difficulté une seconde qui concerne la juste intervention de l'autorité de l'Eglise en vue de promouvoir cette vertu primordiale de la communauté humaine, alors on est un peu comme au comble de l'embarras.
Et pourtant, la question nous paraît valoir la peine d'être posée, car nous sommes convaincu que non seulement les fidèles laïcs mais aussi les membres du clergé catholique peuvent et doivent apporter une contribution consistante pour la résolution des problèmes sociopolitiques et l'amélioration des conditions de vie sociale. Or, faire une telle affirmation suppose que l'on ait les reins solides ; ce qui revient à dire qu'il ne suffit pas seulement de l'affirmer mais de le démontrer scientifiquement en s'appuyant sur les fondements de la foi chrétienne pour le prouver et montrer de manière claire comment une telle vision théologique peut être mise en pratique dans la réalité.
Ce sont là les deux points essentiels que notre ouvrage L'autorité ecclésiastique catholique et la justice sociale aborde dans un débat difficile et passionnant et que nous voulons présenter dans cet article de manière succincte et compréhensible, dans la mesure du possible.
1. Le clergé est-il tenu par devoir de promouvoir la justice sociale ?
Une telle demande paraît simple, mais, en réalité, y répondre de manière adéquate nécessite une véritable étude des sources de la foi chrétienne. En effet, ce n'est pour rien que le Code de droit canonique - qui est la loi disciplinaire régissant les divers aspects de la vie de l'Eglise universelle - fait à maintes reprises des interdictions claires et fermes au sujet de l'intervention des membres du clergé dans certains domaines de la vie sociopolitique tels que : l'exercice direct du pouvoir public aussi bien législatif, exécutif que judiciaire ; des activités syndicales ou commerciales susceptibles de compromettre gravement l'objectif primordial de la vocation sacerdotale qui est un appel à servir Dieu et les hommes dans la proclamation de la parole et l'offrande des sacrifices.
Ceci revient-il à dire que le clerc doit prendre ses distances vis-à-vis de tout ce qui touche la sphère sociopolitique ? Certes, non. Sinon comment serait-il dans ce cas le messager de justice et de paix dont parle l'Ecriture Sainte ? C'est pourquoi on peut dire que l'intention exprimée dans la loi universelle de l'Eglise ne vise pas à empêcher le clerc d'uvrer pour la promotion de la justice sociale mais d'établir des limites à ne pas franchir en temps normal et sauvegarder l'autonomie et la distinction des réalités spirituelles et temporelles.
Ceci étant, il reste à clarifier le type de relation qui lie le clerc aux réalités de son temps. Ce que le droit de l'Eglise ne précise pas suffisamment, laissant planer un flou assez dangereux à notre avis. Car, si la loi définit clairement ce que le clerc ne doit pas faire mais ne dit pas explicitement ce qu'il doit faire dans le domaine indiqué, alors il y a problème : est-ce à dire qu'il doit s'abstenir absolument de toute initiative à l'égard de la question - devenant ainsi un officiant de sacristie -, ou bien doit-il décider de certaines initiatives personnelles qui ne sont pas sous le coup des interdictions - ce qui relèguerait son intervention dans l'ordre de l'éventualité ou de l'accessoire, voire même du relativisme personnel ? C'est dans cet espace de flou juridique que se déroule notre réflexion ; car nous ne considérons pas cette absence de législation comme un problème uniquement canonique mais avant tout comme un problème théologique.
En effet, si le législateur évite de légiférer positivement sur un sujet, c'est très probable qu'il n'a pas suffisamment d'éléments convaincants qui le poussent à le faire : et dans notre cas, nous estimons qu'il y a manque d'arguments théologiques qui puissent porter à considérer comme un devoir l'engagement du clerc en vue de la promotion de la justice sociale.
Voilà pourquoi, fort de notre conviction de départ, nous nous sommes mis à la recherche des principes théologiques qui peuvent consentir à l'affirmation du devoir dont nous parlons. Une fois ces principes assez solidement établis à travers une étude documentée de la Révélation biblique, de l'expérience de l'Eglise et de la réflexion théologique, il convient de songer à la mise en pratique du devoir qu'ils induisent. Car, nous dit saint Jacques, la foi sans les uvres est bel et bien morte.
2. Comment le clerc doit-il agir dans le sociopolitique ?
Avant tout, nous insistons sur le fait que le Code de droit canonique doit mentionner dans sa prochaine révision, comme une nouvelle directive, ce devoir qui, selon nous, est suffisamment fondée d'après cette réflexion théologique. En effet, c'est la parole du droit et son mot d'ordre qui est en mesure de mobiliser les énergies cléricales pour apporter leur contribution à "la construction de la cité terrestre dans sa marche vers la cité céleste". Les moyens, les méthodes et les modes d'actions seront toujours jugés et discernés selon les circonstances des temps et des lieux. Si la loi fait connaître au clerc que cette action fait partie de son devoir d'état et qu'elle lui fournit des éléments de conviction, un pas important sera franchi dans la collaboration entre réalités spirituelles et temporelles. Nous parlons de collaboration et non de substitution aux agents politiques ou de confusion des deux domaines : cette précision est de taille en vue d'éviter ce qui, de part le passé, a conduit à des erreurs dans la vie de l'Eglise.
Voilà pourquoi, en guise de suggestion, nous mettons l'accent sur l'accompagnement des associations sociales et syndicales, ainsi que des partis et des personnalités politiques de la part des membres du clergé. L'Eglise a l'habitude d'intervenir dans certaines situations sociopolitiques durant des moments critiques de l'histoire d'un pays, en délégant par exemple un prélat pour présider à l'uvre de réconciliation et de paix ; elle a également l'habitude de nommer des aumôniers pour des associations de fidèles chrétiens, des hôpitaux, des écoles, des camps militaires, etc. C'est une bonne chose. Cependant, nous pensons que ce niveau d'action est insuffisant. En effet, si le clergé attend seulement la période des situations extrêmes avant de sortir ses armes de paix, ou encore si elle limite le juste secours qu'il doit donner uniquement à certains secteurs de la vie sociopolitique, alors il prive la société d'une aide importante qui fait partie de son devoir d'état : ce qui, en langage spirituel, constitue un péché d'omission.
En accompagnant les concitoyens dans tous les secteurs de leur vie, non seulement individuellement mais de manière organisée et soutenue, il y a plus de chance que les motifs de conflit soient décelés et désamorcés avant leur explosion. De cette manière, le clergé évitera de faire le médecin après la mort ou le sapeur-pompier, passant de délégation en délégation pour éteindre les feux, puisque la sagesse enseigne que prévenir vaut mieux que guérir.
Pour finir, une telle perspective implique une exigence de formation appropriée aussi bien pour les fidèles chrétiens que pour les clercs eux-mêmes. L'art de la diplomatie, d'accompagnement des associations et groupes sans s'ériger en dictateur, la bonne connaissance de l'enseignement social de l'Eglise, la vie de fraternité et de service, constituent autant de valeurs qui doivent devenir familières au clerc non seulement au niveau de la connaissance intellectuelle mais surtout au niveau de la vie pratique, en vue de faire de lui un bon pasteur et un bon compagnon des hommes selon le cur de Dieu. Et alors, la justice et la paix tant souhaitées auront plus de chance de devenir une réalité palpable en vue de l'avènement du règne de Dieu.
Notes :
Voir à ce sujet : A. BRUCCULERI S.I., La giustizia sociale, La civiltà cattolica, Roma 1944, p.5ss ; GILLET O. P., Coscienza cristiana e giustizia sociale, Casa Editrice Marietti, Torino 1927 ; S. AMARTYA, Collective Choice and Social Welfare, North-Holland, Amsterdam 1979 ; ID., L'idée de justice. "Combattre les inégalités de pouvoir autant que les inégalités de revenu", traduction française de Paul Chemla avec la collaboration d'Eloi Laurent, Flammarion, Paris 2010.
L'autorité ecclésiastique catholique et la justice sociale, L'Harmattan, Paris 2014.
Cf. Code de droit canonique, can.285-287 ; Catéchisme de l'Eglise catholique, n.2442.
Cf. Is 61,1-3 ; Lc 4,18-19.
Cf. CONCILE VATICAN II, Gaudium et Spes, 36.
Cf. L'autorité ecclésiastique catholique et la justice sociale , pp.121-212 ; Voir aussi COSTE R., Les dimensions politiques de la foi, Les Editions ouvrières, Paris 1972 ; ID., La responsabilité politique de l'Eglise, Les Editions ouvrières, Paris 1973 ; J.B. METZ, La foi dans l'histoire et dans la société [Titre original : Glaube im Geschichte und im Gesellschaft. Studien zu einer praktischen Fundamentaltheologie, Matthias- Grünewald Verlag, Mainz 1977], Traduction française de Paul Corset et Jean-Louis Schlegel, Cerf, Paris 1999.
Cf. L'autorité ecclésiastique catholique et la justice sociale , pp.229-237.
Cf. Jc 2,26.